(come avrete capito questo spazio e’ diventato il dumping ground per le frustrazioni di cui non so cosa farmene, portate pazienza)
Da un tre mesi l’appartamento che affittiamo da 6 anni e’ stato messo in vendita. Tra Natale e scioperi, abbiamo iniziato a ricevere i primi appuntamenti per vedere la casa solo da qualche settimana.
E quindi ecco un breve corollario dei visitatori che vengono a rompere – senza trascurare l’agenzia che puo’ dare un preavviso di 24h per una visita. Per cancellare, pero’, se ne prende 3/4 di ore di preavviso -sia mai (sia mai!) qualcuno potesse fare dei piani per quel giorno che si e’ liberato, e che spesso e’ un sabato.
Quelli che aprono porte E’ vero che il mio appartamento non e’ davvero mio, ma finche’ pago l’affitto anche un po’ si’ – mica sto occupando. Quante persone che ricevete in casa vi aprono le porte per dare uno sguardo in giro? Ecco, io sto solo affittando e l’appartamento e’ in vendita – questo mi e’ chiaro -, ma all’apertura di porte e finestre la sensazione di invasione c’e’ ed e’ forte.
Quelli che chiedono quali mobili vengano con la casa Che ok, ci sta, ma al primo viewing? Non sai manco come e’ esposta la casa, come siano le spese condominiali -che da quanto ne so si aggirano intorno ar botto -, quale sara’ la vista dalla finistre dato che abbiamo un cantiere davanti e stamo a parla’ de mobili? Alla mia mente impressionabile e stressata per un trasloco che aleggia ormai da tre mesi (in maniera vaga, ma comunque aleggia), chiedermi quali mobili vengano con la casa e’ come parlare dell’eredita’ al capezzale del parente morente. Senza trascurare il dettaglio che io in questa transazione c’entro cippa, questi dettagli vanno visti col proprietario che vende – per quanto sappia quali siano i miei mobili, cosa ne so di cosa vogliano farsene i proprietari dei loro?
Quelli che salgono a vedere l’appartamento senza l’agente L’appuntamento ce l’hanno e quindi a casa ci si aspettava qualcuno. Ne abbiamo avuti gia’ un paio e purtroppo abbiamo pure accettato di farli entrare – ma sradicheremo questo vizio al prossimo che si avventura. Number 1: perche’ questi, prima dell’appuntamento, sanno il numero del mio appartamento in un condominio di un centinaio di appartamenti? Cazzarola ci devono fare se sara’ l’agente a mostrarglielo? Quando dovevo vedere possibili appartamenti da affittare, era difficile ricavare qualsiasi informazione decente all’agente prima di incontrarsi… Cosa e’ successo da allora? Number 2: perche’ dovrei sobbarcarmi il lavoro dell’agente – soprattutto di quello che non si presenta al viewing? Verro’ inclusa nella commissione? Appunto. Number 3 – e sempre un evergreen: Ma a te chi ti conosce???
Quelli che chiedono di poter fare il video Che come richiesta non sarebbe nemmeno un problema, basta rispondere di no. Ma yours dearly e’ stata presa cosi’ alla sprovvista – filmare l’appartamento di uno sconosciuto…? what in the world…? – che non ho manco detto di no. Vogliamo prenderci un minuto di silenzio per la caduta del mio ultimo neurone? Che cazz’ ci si deve fare il potenziale compratore con questo video? Se la casa bisogna mostrala a qualcun altro che non ce la fa a venire all’appuntamento, prendete un secondo appuntamento.
Secondo esperienza, mi sembra di capire che, ormai che so come risponderei a certe richieste, me ne arriveranno di altre, imprevedibili e strampalate – or just wrong. Cio’ che rende me e il mio compagno cosi’ impreparati e cedevoli e’ – l’incapacita’ a dire di no, sicuramente e – il fatto di non voler interferire con un’eventuale vendita, visto che i proprietari sono tra i migliori che si possano trovare – insomma, perche’ dovremmo fare gli stronzi?
E quindi si accettano scommesse su quali domande o richieste ricevero’ in futuro – Senta, non e’ che potrei usare il suo bagno per vedere un po’ l’effetto che fa?
Da quando ho concluso un paio di anni di terapia e uno di antidepressivi, la sensazione che ho sentito tornare piu’ forte di prima e’ l’irritazione. Il ritorno alla normalita’, mi ha convinto che con i miei antidepressivi (Dio li abbia in gloria) ero una persona migliore. Per migliore intendo una persona piu’ paziente, saggia, calma e solida. Mi piaceva questa idea di me stessa. Mi piaceva sentire che ci fosse stato un cambiamento, perche’ tra ansia e depressione, pandemia e trent’anni che avanzano, la stagnazione di certe convinzioni e di certi atteggiamenti mi avevano saturato. E, nonostante i passi avanti, i breakthrough, le elaborazioni, eccomi qui a irritarmi anche solo respirando.
Sono infastidita dalle persone che sul marciapiede camminano in gruppi, in full falange oplitica, e ovviamente in direzione opposta alla mia. Sono stizzita dei clienti che ritrovano conoscenze, colleghi e amici di infanzia in fila al mio lavoro. Quando arriva il loro turno, semplicemente raggiungono la cassa continuando ininterrottamente la conversazione con l’amico ritrovato, manco stessi li’ per prendere un ordine. Mi salta la mosca al naso a ogni domanda prevedibile e a ogni battuta ripetuta all’infinito. Mi da fastidio come Etsy e Depop e compagnia bella, siano tutti user friendly et catzi et matzi all’inizio, e poi, una volta che si riempiono di scammers, si trasformino in un labirinto di upgrade per mungere gli utenti. Sono imbestialita con la costanza con cui riesco a sbattere le dita sempre nello stesso stramaledetto punto, ovvero dove ho un gelone a cui ormai e’ arrivata l’ora di dare un nome.
Sono infastidita dalle visite dei possibili futuri compratori dell’appartamento che affittiamo, Sono infastidita da persone che non conosco e che, pur essendo gentili e rispettose, vengono a guardare l’appartamento in cui vivo da 6 anni, valutando cio’ che vedono, aprendo porte, chiedendo quali mobili siano miei. Sono infastidita dalla civilta’ e disponibilita’ che devo dimostrare per viewings da cui non mi viene nulla – se non la possibilita’ di trasferirmi quando lo sceglie qualcun altro. Sono anche piuttosto stufa delle domande – anche comprensibili – sul mio futuro abitativo ora che l’appartamento e’ in vendita.
Sono irritata dai miei colleghi che, carini e scherzosi, finiscono il loro turno facendomi ritrovare una cippa di lavori conclusi per la chiusura che mi sciroppo con un’altra collega. Gli stessi colleghi che quando c’e’ qualcosa che va fatto, sanno perfettamente cosa devi fare e come devi farlo – mentre gia’ stai sbrigando un paio di compiti e loro semplicemente degnano il mondo della loro presenza.
Sono infastidita da me stessa. Dopo l’investimento economico per prendermi cura di me (investimento in cui i miei hanno anche contribuito per la maggioranza – e quindi aggiungiamoci il senso di colpa), vedere tornare gli stessi pensieri cupi, la stessa senzasione di attesa del peggio che deve arrivare e’ svilente. Mi sembra che avrei dovuto sforzarmi di piu’ con la terapia, che avrei dovuto fare di meglio.
Sono scocciata da questa mia convinzione di dover sempre fare di piu’ e di meglio. Dopo aver passato dei finesettimana demmerda, abbastanza weekend da sviluppare una leggera fobia da finesettimana e da avere un pessimo umore di venerdi’, ho stabilito che il benessere che non si sente naturalmente, me lo devo anche un po’ andare a cercare. Se stare sul divano il finesettimana mi fa deprimere, allora devo fare scelte che potrebbero farmi stare meglio. Chi non ha il privilegio di una mente sana, deve fare il lavoro di trovare strategie che funzionano per farlo stare meglio. A parte l’ingiustizia di base di tutto cio’, vogliamo metterci che sono pure una persona pigra?! Comunque, una volta fatte queste scelte e incentivate nelle ultime due settimane, quale sensazione arriva a trovarmi puntuale come la morte? Esatto! Potevo fare molto di piu’! Dovrei fare meglio, diamine! Eccheccazz!?
Sono irritata, e stremata, dalla mia tendenza a vedere fantasmi di messaggi subliminali nelle conversazioni con ali altri. I see dead people. Ecco, ma al posto dei dead people, I see consigli non richiesti, velata discriminazione o palese paternalismo. Davvero, dopo certe riunioni familiari, se ci fosse un confronto tra cio’ che gli altri hanno sentito dire e cio’ che credo di aver capito io, verrebbe fuori che eravamo a riunioni diverse. C’e’ un nome, credo, per questo ed e’ proiezione. Non riesco a smettere di proiettare roba mia sugli altri. I project the shit onto others. E’ da uscire di testa, da chiudersi in casa e non voler vedere piu’ nessuno perche’ le persone riflettono come uno specchio la mia melma interiore – che, insomma, gia’ ho a che farci tutti i giorni, tutto il giorno, pieta’! Poi un giorno qualcuno mi dovra’ spiegare la differenza tra proiezione e avere semplicemente a che fare con uno stronzo, perche’ nonostante tutto il processo di terapia e del prendere coscienza delle proprie responsabilita’ nella vita, ancora mi sfugge.
sottotitolo: se l’anno scorso qualcuno mi avesse detto che avrei rimpianto un’estate senza vaccini (l’estate scorsa), non gli avrei mai creduto.
Dalla terra con piu’ varianti del virus che tipi di formaggio, noi si riprova a far finta di nulla, come tre lockdown nazionali fa -perche’ in effetti, forse, non si e’ fatto finta di nulla abbastanza bene. Infondo i lockdown sono avvenuti perche’ abbiamo perso la concentrazione e ci siamo impanicati. Perche’ poi un virus non dovrebbe reagire alla nostra indifferenza come i bambini capricciosi che se ignorati poi si stancano e cambiano comportamento? Same! Mary Poppins consigliera sulla gestione virus di Bojo, proprio!
Ieri sono andata al centro commerciale per far spesa da Tesco (come se dovessi giustificarmi sul dove vado mascherinata, vaccinata, disinfettata e senza sintomi) e vedere la maggioranza delle persone senza mascherina e’ stato desolante. Ormai non c’e’ piu’ l’obbligo di mascherina al chiuso (all’aperto non c’e’ proprio mai stato), ma ricordo che al sollevamento dell’obbligo, negozianti e aziende, si sono impegnati a comunicare come loro continueranno a usare le mascherine e a chiedere ai clienti di stare ancora attenti. Questo a livello teorico e per la durata di forse un paio di giorni, quel tanto per farmi sentire sollevata e sperare per il meglio… Illusa che non sono altro! Ora, non so se e’ perche’ io vivo in una zona particolarmente truce dell’Inghilterra, ma la mascherina e’ improvvisamente diventata un accessorio di moda out. Se non c’e’ obbligo, ma una pandemia ancora in corso, evidentemente le mascherine non servono piu’ – scema io che non vedo la palese relazione tra le due cose.
Al supermercato ho pensato che era da tempo che non venivo urtata (non solo metaforicamente) da cosi’ tante persone e sono arrivata alla conclusione che le persone non stanno piu’ mantenendo le distanze di sicurezza. Non sono una persona goffa e di solito riesco a evitare di andare addosso agli altri: il mio personal space e’ prezioso, conosco i miei surroundings e gli sconosciuti non mi piacciono per principio. Pero’, come per i tamponamenti in macchina, se chi mi sta intorno non fa caso a mantenere la distanza da me, scontrarsi e’ un attimo. Avrei volentieri pulled a Gogo Yubari col mio cesto della spesa, ma poi ho optato per un profilo piu’ sottotono. Che insomma, viva i vaccini ma quando nessun esperto (manco quelli da bar!) sa dire quanto durera’ la protezione dello stesso e quanto sia efficace con le varianti, io non andrei a verificare e a insistere di persona per amore della scienza come invece gli inglesi sembrano voler fare.
E in questa supercazzola del “liberi tutti ma con buon senso”, “godiamoci l’estate, ma responsabilmente”, “pensiamo agli altri, ma senza mascherine”, ancora sento consigliare di evitare viaggi non necessari. E a me prende un attacco di coda di paglia acutissima in vista delle mie vacanze in Italia -oltre a iniziare sciorinare una corona di vaffa ad altezza uomo. Le mie vacanze in Italia non sono una questione di vita o di morte, ovvio; pero’ mi si permetta di considerarle piu’ importanti della scocciatura di indossare una mascherina – che per alcune persone e’ stata una tale limitazione della propria liberta’ da farti chiedere che razza di vita privilegiata abbiano condotto finora. Nel paese che ha ospitato le partite degli europei di calcio, suggerire alla popolazione (o a quelli che ancora ascoltano le indicazioni del governo) di considerare la necessita’ dei propri spostamenti e’ una colossale presa per i fondelli. Gli europei sono anche serviti a far assaggiare un po’ di humble pie alla squadra di casa che, si’, ok, totally worth it, ma forse pubblico e partite non erano proprio proprio cosi’ strictly necessary. Quindi i miei spostamenti non dipenderanno dall’inevitabile necessita’ degli stessi, ma da quanto gli astri saranno favorevoli e mi permetteranno di compiere i miei piani. Responsabilmente.
In queste settimane di rimuginio da sola a casa, mi sono accorta di fare molta fatica a lasciar andare delle situazioni. Let it go mi sembra da sempre un bel concetto adottato da chi essenzialmente se ne frega -si’, questo e’ quello che mi racconto per dormire la notte. Eppure e’ vero che per i torti (anche piccoli, anche minuscoli), ho una memoria da elefante – che con il vuoto esistenziale attuale e’ micidiale perche’ tutto viene amplificato, e anche probabilmente distorto. Mi riferisco in particolare a piccole situazioni del passato in cui ho sollevato un problema, e mi sono quasi ritrovata a essere io il problema.
Tipo, alle medie c’era un mio compagno di classe che mi prendeva in giro durante educazione fisica, perche’ ero scarsa scarsissima -c’e’ anche che lui era scarsissimo in classe, ma non mi ricordo di averlo perculato per quello; poi chissa’, chi puo’ ricordarsi tutto tutto dell’adolescenza e andarne fieri? Quando e’ stato sollevato il problema, mi ricordo che il preside disse che il mio compagno non andava bene a scuola e quindi non era il caso di metterlo in difficolta’ con una nota e che avrebbe parlato con il professore di educazione fisica -un musone che copriva la sua job description per intero semplicemente indossando una tuta a lavoro. Scusate la cattiveria, ma anche io ho bisogno di sfogarmi. Manco a dirlo, anche dopo aver parlato col preside, non cambio’ assolutamente nulla -molto probabilmente perche’ non e’ stato fatto davvero nulla?
Durante il mio progetto di volontariato in UK, qualche anno fa, ho fatto notare quanto fosse sbilanciato il mio gruppo di volontari dato che 4 su 6 -e poi 4 su 5 quando una ha lasciato il programma – parlavano russo che era poi assurta a lingua ufficiale nella casa che condividevamo. C’e’ da menzionare che la leader del progetto era madrelingua russa? Questa situazione era cosi’ palese che non poteva essere negata. E’ stato stabilito di ridurre l’uso della lingua russa in casa -peccato ci fosse un elemento esterno (il fidanzato, russofilo, di una delle volontarie) che delle direttive della capa gliene importava assai. Sono state anche fatte attivita’ di team building e team bonding, tra cui giornate dedicate a ciascun volontario in cui ognuno doveva condividere aspetti culturali del proprio paese e preparare un pasto tradizionale della cucina nazionale. Quando ho saltato uno di questi incontri (quello col mio amico piu’ stretto del progetto, quello che per conoscerci meglio avremmo dovuto sposarci), mi e’ arrivato un sms dalla capa per richiamare il mio mancato commitment – sms che ho ghostato in modo molto professionale e, onestamente, je ne regrette rien. Quando a fine progetto, anche il mio tutor ha buttato li’ che ci si aspettava che mostrassi piu’ impegno, ho fatto davvero fatica a farmi scivolare di dosso la critica perche’ avrei volentieri elencato cio’ che del progetto faceva acqua dal primo giorno – ma sappiamo che figura avrei fatto in quel caso, no? “Guarda, tutor, il progetto e’ penoso, la capa non solo non e’ rispettata da nessuna delle organizzazioni con cui lavoriamo, ma pensa anche di essere a capo di una task force che portera’ lustro alla sua carriera. Tutti i volontari si sono trovati fidanzati (guarda caso) europei e side-jobs -anche chi e’ in UK senza permesso di lavoro. Conviviamo con un membro extra (il fidanzato russofilo) che non e’ parte del progetto e non potrebbe in teoria appoggiarsi a un affitto offerto ai volontari dall’Unione Europea. But, please, do tell me more about my commitment…” Le volontarie russe, o russofile, non hanno sollevato problemi, e loro hanno dimostrato di aver capito davvero tutto. Non e’ che loro non abbiano incontrato ostacoli, ma “va tutto bene” era la facciata che avevano scelto di presentare.
A lavoro ho sentito spesso dire “bring solutions, not problems“. Anche se con questo si cerca di far sviluppare problem solving skills ai dipendenti, oltre a suonare stucchevolmente yuppie, anche l’idea dietro al concetto ha i propri limiti. Per esempio, a volte i problemi sono generati dai capi stessi, i quali non prendono benissimo che gli si vada a dire “ecco la mia soluzione: si cerchi un altro lavoro che’ ci risparmiamo un po’ di casini”. Io non so se questo sia un punto di arrivo e un indice di maturita’. A me sto “bring solutions” mi puzza di qualcuno che si sta lavando le mani, dopo anni di trainings su problem solving e conflict management. Mi sembra un po’ una scusa per cancellare l’accountability dalla scena e mi sembra anche che venga richiesto (ai solution bringers) di prendersi pure le responsabilita’ di cio’ che non dipende direttamente da loro. Ma forse e’ solo immaturita’ mia, e probabilmente vivo ancora nel mondo di My Little Pony.
Mi ricordo, sempre alle medie (che periodo dimmerda), in un progetto di gruppo, ho avuto una strigliata stratosferica dalla professoressa perche’ i miei compagni mi avevano affibbiato la colpa di aver rallentato la realizzazione di un (inutile) cartellone. Da cretina che ero, non ho nemmeno detto la verita’ alla professoressa, ovvero che quei quattro cretini erano degli incapaci che non si sapevano assumere le proprie responsabilita’. Mi sono sciroppata la strigliata e via. Ancora mi chiedo se una volta a conoscenza della verita’, la professoressa avrebbe preso delle misure per mettere al proprio posto i miei compagni. I miei due compagni che avevano voti bassi avrebbero ricevuto una strigliata della stessa portata? E io? Avrei comunque ricevuto qualche critica sulla mia condotta, nonostante la colpa ricadeva interamente sui miei compagni? No, perche’ dopo l’esperienza del preside, e anche dopo aver visto le dinamiche sul lavoro di mio padre, davvero c’era da aspettarsi cose dell’altro mondo.
Quando il mio tutor mi ha chiesto se volessi sollevare dei problemi col progetto di volontariato, avrei dovuto sorridere e dire “no, assolutamente!”. Quando il mio compagno di classe mi prendeva in giro, avrei dovuto rendergli il favore umiliandolo in classe durante un’interrogazione andata male -anche se, infondo, non mi importava un fico secco di farlo e mi sarei forse anche presa una nota, visto che avevo voti molto alti. Ma almeno avrei messo la palla al centro. Quello che si puo’ evincere da questo post ( off-topic qui e li’ e in cui faccio vedere aspetti di me di cui non dovrei andare fiera, ma che esistono e quindi ciccia) e’: i vaffa mancati continuano a perseguitarci dopo anni!
Per il gusto di placare la curiosita’ dei lettori, vi posso informare che le volontarie del progetto che non potevano rimane in UK dopo il volontariato (causa permesso di soggiorno) sono magicamente sposate a mariti che permettono loro di rimanere. Il gesto garbato del preside di evitare al mio compagno delle medie di essere responsabile delle sue parole, non e’ comunque servito a nulla. Per la brutta china che ha preso, pero’, posso solo sperare che abbia bucato le ruote della macchina del preside.
Pardon my French. Appunto, scusate il titolo truce, ma non c’era altro modo di definire un paio di film che ho visto di recente. Dopo aver finito il re-watch di Breaking Bad e concluso per davvero la storia con El Camino, io sarei anche passata al re-watch di Better Call Saul (spin-off di Breaking Bad), ma il fidanzato si e’ rifiutato per prendersi una pausa da Walter White e dalla malavita di Albuquerque. Il problema e’ stato che, per riprendersi dalla cupezza degli ultimi episodi della serie, ci siamo buttati su film leggeri, ma leggeri in senso becero. Una volta preso questo filone, anche allontanandoci dai film leggeri, siamo comunque, involontariamente, rimasti nella categoria dei film beceri. Due delle nostre scelte recenti non mi vanno giu’: Behind Her Eyes (che poi e’ una miniserie) e Siberia. Entrambi sono su Netflix, almeno qua in UK.
So, where do we begin?
Spoilers senza pieta’ a seguire!
Behind Her Eyes e’ una miniserie di 6 episodi tratta dal romanzo di Sarah Pinborough. Non ero a conoscenza della storia ne’ del romanzo prima della visione, altrimenti forse l’avrei evitata. Una volta che inizio la visione di qualcosa, di solito la porto a termine per vedere dove vada a parare. C’e’ chi lo chiama autolesionismo, e c’ha ragione, c’ha! La miniserie e’ classificata come thriller psicologico – perche’ ‘thriller campato in aria’ pareva brutto. Scusate, il pubblico sembra adorare questa serie, mentre io non le vedo ‘sta gran ragione d’essere e quindi le trovo tutti i difetti. Infatti secondo me: ci si poteva fare un film (invece di sei episodi da 50 minuti, anche se il film lo avrei perculato comunque) e l’uso del paranormale nei thriller e’ di un paraculo che levate!
Dunque, in Behind Her Eyes, David e’ uno psichiatra (professione ricorrente nei thriller, soprattutto quando gli stessi hanno zero insight) che si trasferisce a Londra con la moglie. Una notte esce a bere qualcosa da solo e incontra Louise, madre single bidonata dall’amica la stessa sera. I due si piacciono all’istante, bevono insieme (la misantropa in me annuiva scettica) e concludono la serata con un bacio. Il giorno dopo (o poco dopo) Louise scopre che David e’ il nuovo psichiatra assunto nello studio nel quale lei lavora da segretaria – do you smell the cliche’ yet? I know I do. Riducendo la storia in poche righe: Louise finisce per diventare amica di Adele (moglie di David) e ovviamente David e Louise finiscono ripetutamente a letto -ma anche sulla di lui scrivania dello studio, se e’ per quello. Si crea quindi questo triangolo tra David, Adele e Louise. Si capisce che qualcosa non torna nel rapporto matrimoniale e, a turno, i due si comportano in modo ambiguo, per poi contendersi lo scettro della vittima. I due coniugi sembrano costantemente far riferimento a ‘qualcosa’ successo nel passato e che non deve ripetersi -la solita tiritera dei segreti nei thriller, quando non c’e’ migliore segreto di quello a cui non si fa costantemente riferimento. Si scopre poi che la coppia si e’ trasferita a Londra a causa di un presunto tradimento di David. Le corna si rivelano poi semplicemente uno scambio di chiacchiere al bar, davanti alla colazione: barista – David, sembri infelice David – Io e mia moglie abbiamo dei problemi barista – Pensi che il tuo matrimonio meriti la pena che tu sia infelice? A causa di questo, la povera barista viene pesantemente minacciata da Adele – ma roba da violazione di domicilio e danno arrecato a cose – e che non le venga in mente di immischiarsi nel suo matrimonio ne’ di chiamare la polizia! Due chiacchiere, al bar, che generano uno dei precedenti/segreti dei due personaggi… Tensione a palate, proprio! Comunque, tra i segreti che appartengono al loro passato, aleggia la possibilita’ di un assassinio – forse i genitori morti in un incendio dal quale, guarda caso, David salva Adele? Ma sarebbe troppo facile – e troppo interessante. Tra le scene del passato di Adele, si vedono anche scene di quando era in una comunita’ di recupero e stringe una stretta amicizia con un certo Rob.
Tornando alla Londra del presente, Louise soffre di terrori notturni -con immagini ricorrenti che non vengono minimamente indagate e analizzate nella serie: che abbiano intenzione di farne una seconda stagione? Ossignur! Adele, che ha sofferto degli stessi terrori, la aiuta a superarli attraverso delle tecniche che, all’insaputa di Louise, la introducono poi ai viaggi astrali – I know, right? WTF! Adele sa compiere proiezioni astrali e cioe’, uscendo dal suo corpo, puo’ visitare luoghi che gia’ conosce e assistere a cio’ che vi sta succedendo senza essere vista. Confesso che non so se sto descrivendo bene questo fenomeno, proiezioni/viaggi astrali, ma il tema e’ di cosi’ poco interesse per me che manco mi sto mettendo a controllare su internet, datevi pazienza. Quindi, a un certo punto, Louise capisce cosa sta succedendo. Cosi’, purtroppo, ci ritroviamo con una Louise paladina della giustizia che si scontra con Adele – e giu’ di “cioe’ si,’ sono finita a letto con tuo marito, ma tu sei una manipolatrice”. Dall’alto del tuo piedistallo di rettitudine, Louise, facci sognare! Quando Louise inizia le sue indagini e si arriva a questo momento, e’ effettivamente iniziato il mio scazzo con la miniserie e i suoi personaggetti. Confesso di avere un problema con il momento in cui, in tutti i thriller, il personaggio che ha capito, affronta da solo il cattivo. La goffaggine teatrale di questo momento mi provoca sempre disagio e imbarazzo, sia nei film che nei romanzi. Lo trovo irreale (sei da solo -complimenti! – davanti a un criminale e gli dici “so cosa hai fatto e lo diro’ alla polizia”… Ma sei cretino? Dillo che vuoi morire!) e spesso tirato per le lunghe -come quando il cattivo e’ armato, la pistola e’ puntata pero’ si prende il tempo di spiegare il suo movente e i dettagli del suo modus operandi… Ma prendersi un break e parlarne davanti a una pinta, no? Comunque Louise, madre single, lavoratrice indefessa e paladina della giustizia, non puo’ essere una brutta persona – ti si scopa il marito, ma poi non ti vuole male se te la prendi! Quando riceve degli sms di addio di Adele -che appare sopraffatta dagli ultimi eventi, tra cui il fatto che David vada dalla polizia (in Scozia, perche’ a Londra non ce n’e’, evidentemente)- Louise, pensando possa togliersi la vita, cosa fa? Ma va a salvarle la vita, no? Non e’ che chiama la polizia e un’ambulanza e se ne sta a casa -perche’ e’ da sola, ha un figlio minore e deve proteggersi. No, corre trafelata a salvare la vita a quella che ai suoi occhi e’ un’assassina pazza da legare. Una volta arrivata sul posto, come salva la sua miglore amica di sempre? Ma con le loro tanto care proiezioni astrali! I loro spiriti (anime, persone interiori? whatever) si incontrano, MA si scambiano. Adele entra nel corpo di Louise e fa fuori Louise nel suo corpo rivelando che tutto cio’ rientrava nei suoi piani. Nel colpo di scena finale, plot twist che non avevo previsto, scopriamo che lo spirito di Adele (anima, persona interiore, whatever) non e’ davvero il suo, ma quello di Rob. Rob aveva tempo addietro scambiato la sua anima con quella di Adele. Una volta nel corpo di lei, aveva ucciso e occultato il corpo di Rob -con l’anima di Adele dentro. Ai tempi post rehab, si era creato un triangolo tra Rob, David e Adele e si intuisce che Rob nutra dell’interesse per il fidanzato dell’amica. Quello scimunito di David accetta per amore di Adele di tenere occultato il corpo di Rob (morto per overdose, secondo quanto gli viene detto) e se la sposa pure, come se dal fidanzamento al matrimonio non fosse successo nulla nulla che potesse fargli cambiare idea. Scusate se qui sfodero la mia furia saccente, ma i personaggi maschili tormentati, ma passivi e sprovveduti proprio non li digerisco, e’ stata una piccola soddisfazione personale vedere David sposarsi e risposarsi Rob, eccheccazz! Rob, a proposito, qualcuno te lo deve dire: ti stai scopando uno a cui sta bene che il tuo cadavere sia nascosto e abbandonato in un pozzo? How is that working for you?
Detto questo, credo che siamo tutti d’accordo che un thriller debba avere una struttura granitica, in cui ogni elemento e’ necessario e ben inserito, i personaggi sono ambigui ma con moventi chiari e coerenti e le dinamiche sono ben intrecciate. Se proprio volessimo la luna (e noi la vogliamo), direi anche che la storia dovrebbe saper evitare i cliche’. Un’analisi approfondita dei personaggi dovrebbe bastare per evitare luoghi comuni triti, tipo la moglie trascurata che tradisce il marito col primo che trova, la paziente che finisce a letto con il suo psichiatra, il marito che va letto con la segretaria, per dire. Rob/Adele vuole stare con David ed e’ pronta a tutto per riuscirci, e ok -e’ una pazza scatenata, ma ok. Louise e’ innamorata di David, viene coinvolta nel suo matrimonio e si sente in colpa verso Adele, ok. David? David si sposa una che ritiene che occultare un cadavere sia una cosa accettabile, poi guarda caso, il matrimonio non funziona. Secondo me David e’ davvero debole come personaggio, ma forse ci sono piu’ elementi che verranno analizzati nella seconda stagione? Quindi ricapitolando: viaggi astrali (ma vero?), tradimenti (cliche’ alarm: dingdingding!), scene di sesso in abbondanza (perche’ senno’ pare che non valga la pena girare un film), Louise e’ l’eroina, David rimane bamboccione, Adele e’ Rob. Questa e’ una delle poche volte che mi trovo d’accordo con la critica -che e’ stronza per natura e io sono evidentemente inacidita dall’ennesimo lockdown. The Guardian si e’ pronunciato con “who knew threesomes could be so boring” e mai parole furono piu’ calzanti! Leggendo invece i pareri del pubblico, e’ evidente che non ci ho capito molto. Tutti sembrano aver previsto il plot twist (ignorante io) e tutti sembrano aver colto indizi e suggerimenti fin dalla prima puntata, macche’, dal trailer!
Ricapitolando gli elementi che mi rimangono indigesti: – Adele, che poi e’ Rob, non mi torna proprio. Rob vive in una casa popolare con la sorella e il di lei fidanzato nella periferia di Glasgow. Il personaggio non e’ di estrazione sociale alta, sfoggia un linguaggio colorito, un accento inconfondibile ed e’ molto informale, quando non e’ strafottente. Adele e’ di una famiglia probabilmente nobile, ricca sfondata, con un castello e una tenuta da fiaba. I due hanno due vissuti chiaramente distinti. Non appena Rob diventa Adele, Adele non tradisce nulla della persona che e’ realmente… Really? Adele aleggia algida, con abiti sofisticati, trucco, manicure e capelli perfetti – pure piu’ perfetti di quando Adele era Adele- e prepara piatti raffinatissimi in cucina -come nella migliore tradizione della periferia di council houses di Glasgow… Come no! Poi secondo il pubblico, no, assolutamente, Adele ricorda palesemente Rob, col caschetto ordinatissimo e in pigiama di seta senza una grinza. Anzi, e’ proprio questa sua estrema sofisticatezza che ci fa capire che in realta’ e’ Rob. ? Evidentemente non so cogliere le sottigliezze. – il paranormale in un thriller puo’ risolvere qualsiasi situazione. Può far viaggiare i personaggi nel tempo, può fargli leggere i pensieri, può farli tornare dal regno dei morti e farli volare, ma come si inseriscono questi elementi in una storia con personaggi e dinamiche ancorate alla realta’? Vuoi usare cose strambe? Vai di fantascienza, vai di distopia, le soluzioni ci sono, autori, usatele! – la moda delle madri single che diventano le eroine delle storie contorte in cui si trovano coinvolte, mi sembra diventare sempre piu’ un nuovo cliche’ – perche’ poi single? Le mogli non hanno una personalita’ propria? Le single sono piu’ in balia degli ormoni? (Biased much?) Le single sono piu’ indifese? Molte delle madri single rappresentate sono nere: ci sono ragioni dietro a questo? Conviene indagarle o e’ meglio non sapere? E’ vero che e’ innegabile che il women empowerment ultimamente trasuda da molti film e romanzi. E’ interessante come cambiamento dal passato, ma si dovrebbe anche fare attenzione a non farlo diventare una moda superficiale. Affidare il ruolo centrale a una donna puo’ essere interessante, ma non e’ tutto. Se la donna poi viene descritta come un cliche’, allora non e’ piu’ empowerment, e’ solo un’espediente degli sceneggiatori per metterla in balia di situazioni trite e stereotipate. E questo non riguarda solo i personaggi femminili. Non so se sono solo io, ma in questa tendenza a celebrare le donne (poi analizzate poco e male), si e’ arrivati a rappresentare personaggi maschili che sono solo opachi e insulsi (David, si’, sto parlando di te) quando non violenti e riprovevoli. Possiamo creare dei personaggi sfaccettati, solidi e interessanti? Sia donne che uomini che LGBTQ+, grazie; basta co’ ‘ste supereroine in un mondo di maschi inetti, gay estroversi e sopra le righe e lesbiche mascoline e seriose. Ops, forse mi sono allontanata dal tema, ma il mondo doveva sapere il mio punto di vista! Prego.
Tornando a noi, film demmerda number ciu’
Siberia Se una sera doveste avere bisogno di un film brutto, Siberia non delude. Questo, mi duole dirlo, e’ piu’ demmerda della miniserie, perche’ due cose dalla miniserie le avrei pure salvate (il plot twist e la fine che fa David), ma questo film proprio non riesce a redimersi. Mi duole essere cosi’ inviperita con questo film perche’ c’e’ Keanu Reeves – che tra l’altro l’ha anche prodotto.
In poche parole, Lucas (Keanu Reeves) e’ un commerciante di diamanti che viaggia in Russia per una vendita importante e si ritrova in una situazione piu’ grande di lui. Il suo contatto a Mosca, Piotr, e’ sparito con i diamanti e il gangster che li vuole acquistare da’ a Lucas 24 ore per consegnargli le pietre preziose. Nella speranza di rintracciare il suo contatto locale, Lucas viaggia a una localita’ in Siberia, in cui non trova Piotr, ma si bomba la barista perche’ si’. Come wikipedia spiega tutto cio’ e’ ancora meglio: “he (Lucas) goes to a cafe and starts a fight with two men and the cafe owner Katya saves him. Later, her brother Ivan suspects her of sleeping with Lucas. So she asks him to sleep with her.” Di una logica disarmante, no? Lucas poi incontra il gangster a Mosca il quale, com’e’ da tradizione, propone a Lucas di scambiarsi le donne (Katya era con Lucas) per farsi fare una fellatio e stringere cosi’ (?) un’alleanza piu’ solida (?) in vista della consegna dell’intera partita di diamanti. … Let that sink in. Qui wikipedia non sbaglia quando riassume l’incontro dicendo che Katya is raped. Costringere qualcuno a fare sesso orale e’ stupro, quindi grazie wikipedia per chiamare cio’ che succede per quello che realmente e’, perche’ il film lo usa quasi come un espediente per rafforzare l’amore tra Lucas e Katya. Sceneggiatori, ma sarete scemi? Qua e’ quando ho sperato che alla fine sarebbero poi comparse piu’ ramificazioni nascoste a questa storia inutile. Speravo di scoprire che Katya fosse il braccio destro del gangster e che Lucas fosse vittima di una trappola ancora piu’ complessa. Ho anche sperato che Katya fosse della polizia e che buttasse sia il malavitoso che Lucas in carcere, a vita. Ho sperato che Katya facesse fuori Lucas con le sue mani o che almeno almeno scatenasse (in piena tradizione mediterranea, non c’entra nulla, vabbe’) i suoi fratelli contro Lucas. Che almeno pretendesse meta’ dei soldi per i diamanti, visto che il gangster se lo era subito lei. Ma sono un’illusa! In breve, i diamanti veri non compaiono da nessuna parte, Lucas rintraccia Piotr morto in mezzo al nulla e decide di non tornare negli Stati Uniti, ma di morire in Russia da uomo d’onore quale e’. E qua mi sentirei di ricordare a Lucas che e’ un commerciante di diamanti che fa affari con gangster senza scrupoli… Quale onore, di grazia?
A meta’ film ho detto al fidanzato che mi ero distratta e che avevo perso il filo (come mi succede spesso), ma mi ha risposto che non c’era ne’ filo ne’ senso. In sunto, riassumerei la storia come un’accozzaglia imbarazzante di brutture gratuite, stereotipi negativi sulla Russia e banalita’ sull’amore che manco il buonismo più bieco. La contrapposizione tra matrimonio stabile, ma senza amore (perche’ Lucas è sposato) e passione travolgente, ma senza futuro e’ di una banalita’ allucinante. L’uomo che non si sottrae al suo destino quando le cose si mettono male e’ presentato come un esempio di coraggio e onore, anche quando quel destino se lo e’ bello che creato, pezzetto per pezzetto, senza traccia di etica.
Riconosco che Reeves non e’ l’attore piu’ intenso sul mercato e il pathos lo scansa spesso abbastanza bene, eppure mi e’ sempre piaciuto per le scelte lavorative originali che ha fatto – cioe’, Matrix? Ci sono attori dalla recitazione piu’ nuanced che hanno fatto film meno interessanti, per dire. Pero’, davvero, Keanu, perche’? Perche’ fare un film cosi’ brutto?
A volte mi sveglio bene. La giornata inizia ok -purtroppo tardi -ma comunque inizia bene. Poi mi ricordo che mi girano e allora mi agito da 0 a 100 in tre secondi netti. E’ come se riprendessi il filo del mio rimuginio da dove l’avevo lasciato. Ogni tanto si aggiunge qualcosa di nuovo, altrimenti di solito e’ un ciclo continuo di: questo lockdown ha stufato, non ne posso piu’ di vedere gli europei fare una vita quasi normale e lamentarsi di una mascherina, qua i vaccini vanno come un treno, peccato che stiano facendo una delle due dosi e il Daily Mail dice che una dose copre gia’ per l’80% – il problema e’ che se lo dice il Daily Mail non sara’ vero! E il lavoro chissa’ ancora per quanto ci sara’. -Entrata in scena della voce della mia autostima- A proposito, ma sai che sei veramente scarsa al tuo lavoro? Si’ ok, ti dici che se i capi non fossero contenti, ti avrebbero detto qualcosa, ma infondo sei cosi’ poco importante da non meritare nemmeno di comunicarti cosa dovresti cambiare. Ah, e vogliamo parlare delle tue finanze? Come pensi di fare l’adulta con delle entrate cosi’ ridicole?! Inutile che fingi di avere una vocazione hippie, che’ gli hippie sono passati di moda il secolo scorso. E poi ti piace il sushi, viaggiare comoda e accumulare libri e fare compere, come pensi di permetterti tutto questo? Non e’ che te la sei raccontata finora? Ti sta venendo il dubbio di aver saltato un passaggio fondamentale, vero? Che’ anche la hippie incallita del liceo ora sta lavorando, in completo, a progetti di ‘esperienze’ di lusso per turisti cinesi – capito? L’ultimo baluardo dei sani (e parecchio generici) principi di uguaglianza che va dietro ai bisogni capitalistici dei magnati cinesi mentre tu, perche’ sembra la cosa giusta da fare, pianifichi l’acquisto degli assorbenti riutilizzabili per non pesare troppo sul conto in banca – che sta cercando di farti capire da sempre che per risparmiare bisogna non spendere. Ma chiariamo: non e’ l’hippie del liceo a essersi venduta, sei tu che ti sei persa qualche passaggio importante nella crescita, diciamocelo! Il concetto di ‘vendersi’ e’ stato inventanto da qualcuno che non sapeva fare i conti con le proprie incapacita’ e voleva darsi un’aura di integrita’ e di etica incrollabile, ma figurati! Quindi di preciso, quando ti sei persa? -uscita di scena della voce della mia autostima. E se devo ancora sentire qualche parente italiano dirmi di uscire a farmi una passeggiata, denuncio Skype – e pure il parente italiano: da quando e’ diventato ok dare consigli sul distrarsi a qualcuno che nell’ultimo anno si e’ fatto un totale di 23 settimane di lockdown (and still counting)? Accetto consigli solo da chi ha passato lo stesso – in mezzo a una popolazione che continua a non capire l’importanza della mascherina, tra l’altro. Come quelli che consigliano ai depressi di pensare che c’e’ chi sta peggio… Grazie, guarite moltitudini dal male del secolo, oh sommi benefattori! E in tutto questo non riesco manco piu’ a leggere un libro decente perche’ la mia capacita’ di concentrarmi e di immagazzinare nuove informazioni e’ compromessa. E poi, certe volte, raggiungo un tale livello di confusione interiore, misto a scazzo, misto ad ansia generalizzata per cui non riesco nemmeno piu’ a capire perche’ mi stiano girando, perche’ rispondo male al fidanzato che non fa altro che respirare un po’ troppo rumorosamente (pure lui pero’!) e perche’ ho voglia di dare inizio alla litigata del secolo, ma potrei farlo solo col povero fidanzato (questioni di same household) e in un monolocale – e, insomma, mi conviene? E niente, mi ero svegliata bene.
Disclaimer paraculo: grammatica e punteggiatura discutibili servono a rendere l’anarchia del caos che mi si scatena in testa in questi momenti, in tre secondi netti.
L’ultima stagione di Dawson’s Creek si trascina che ormai faccio fatica ad avere voglia di finirla -o meglio la mia voglia di terminarla viene dalla voglia di liberarmene e basta.
*Attenzione, seguiranno spoiler -anche se la serie e’ ormai attempatella, vi capisco se non l’avete ancora vista, io l’ho iniziata per la prima volta solo qualche settimana fa.*
Se dovessi riassumere Dawson’s Creek in poche parole direi che e’ un teen drama-coming of age in cui un gruppo di amici va a letto con tutti gli amici del sesso opposto. Vorrei sottolineare l’elemento fantascientico che non viene menzionato tra i generi della serie, ma si puo’ dedurre: questi vanno a letto tra di loro (e i di loro amici e fratelli) ma rimangono comunque amici. Ecco, per alcuni tutto cio’ sara’ realizzabile, per la sottoscritta e’ pura fantascianza. Questi si scambiano compagni e, per lo piu’, non fanno grandi scenate. Dawson non la prende bene quando Joey e Pacey confessano di amarsi, ma viene raffigurato come uno che overreacts. Da overreactor nata, a me qualche scena di insulti, di mandarsi a quel paese e spaccare due cose non dispiacerebbe. No, perche’ qua la normalita’ sembra lasciarsi di punto in bianco (alle feste poi!) senza manco una spiegazione e augurarsi il meglio l’un l’altro. Cosi’ le feste mi farebbero montare un’ansia anticipatoria che levate! E le rotture comunque non tirano fuori il meglio di me.
Considerando tutta la serie -che ripeto, non ho ancora finito di vedere – credo di poter dire che le stagioni ambientate a Capeside, quando tutti i ragazzi andavano ancora a scuola, mi sono piaciute molto di piu’. Nonostante, in genere, mi piacciano molto le singole puntate delle serie ambientate in posti diversi dal solito -per vacanze o lavoro dei personaggi -, mi piacciono comunque le serie che hanno anche un’ambientazione stabile, con caratteristiche rassicuranti. Queste ambientazioni diventano anche un personaggio in piu’ e si ricordano con affetto, come faccio con Stars Hollow di Gilmore Girls o la casa di Monica di Friends. Quando tutti i personaggi principali lasciano Capeside per Boston secondo me si perde un po’ di collante e non se ne crea di nuovo. A una location stabile seguono anche personaggi secondari stabili -che per me fanno la differenza -, e quindi parenti, insegnanti e amici secondari apportano momenti di comic relief o tematiche che non sono strettamente legate alla vita dello studente medio – e spaziare e’ sempre meglio del rigirare la stessa minestra di verifiche in classe e amorazzi.
Il mio personaggio preferito della serie e’ Grams, la nonna di Jen -ok, questo e’ il momento in cui mi direte che non c’ho capito niente di Dawson’s Creek. Secondo me la signora e’ ben definita in cio’ in cui crede, ma non per questo non si ammorbidisce nel tempo -alla fine riesce anche a pronunciare la parola penis senza rimanerci. E’ saggia, simpatica e anche solo con la sua presenza tocca la vita dei ragazzi ed e’ un punto di riferimento; e poi, quando da pensionata vedova si trasferisce a Boston da un paese, si puo’ permette una super casa piena di camere – misteri delle serie americane. Il personaggio con cui invece piu’ mi identifico e’ Dawson, e sospetto che questo sia molto uncool da parte mia – ma forse that ship has sailed con la mia confessione di amore per Grams. Direi che tra l’immedesimazione e il wannabe c’e’ una linea sottile. Mi identifico con la sua vita sentimentale inizialmente sfigata, con il suo incrollabile amore per Joey – anche le mie cotte prendevano radici piu’ profonde di quando fosse forse giusto – e anche con il fatto che sia un adolescente piuttosto privilegiato, ligio alle regole e legato alla famiglia. Direi anche che mi identifico con il suo ugly crying – never forgotten dal mondo delle meme – e la propensione all’autoanalisi paralizzante. La compotenente wannabe della mia propensione per il personaggio di Dawson e’ che vorrei avere anche io una passione cosi’ forte da costruirci il mio futuro sopra – anche se nessuno gli risparmia mazzate nel percorso. Per quanto invece riguarda gli altri personaggi:
Joey, da quanto deduco, e’ l’eroina della serie, quella che non sbaglia, e che pure quando sbaglia, pero’ infondo non sbaglia. Bella, ma semplice, brillante ma non spocchiosa, indipendente ma non stronza (distinzione che io fatico ad applicare nella mia vita). Non e’ che nella vita sentimentale sia un fenomeno, che’ pure lei si fa di quelle paturnie che manco il pre-ciclo. Eppure quasi non la si vede in un momento di deriva, di sbando esistenziale – quante volte si ubriaca? Un paio? Ma forse, e comunque non si disfa come noi mortali. Vabbe’, non e’ che la personalita’ si misuri dalle ubriacature… La cosa che di Joey proprio non mi spiego, ma proprio non mi capacito, e’ vederla camminare per strada e uscire di casa SENZA borsa. Ma e’ matta?
Pacey, il comic relief con la famiglia disfunzionale. Per me il personaggio assume una certa rilevanza sexy quando inizia a lavorare da cuoco (sorry, deformazione personale), ma il sex appeal fa seppuku quando lo si ritrova nell’ultima stagione con un pizzetto che Dio ce ne scampi. Pacey e’ quello che, zitto zitto, tromba piu’ di tutti, pure Jen secondo me non tiene il passo, a dimostrazione che la comicita’ paga. Purtroppo gli sceneggiatori gli fanno mettere la testa a posto nell’ultima stagione e lo vediamo in completo e cravatta – perche’ la ristorazione non sembrava un campo abbastanza serio per maturare, un ufficio prototipo del maschilismo tossico invece si’.
Jen, la mangiauomini di 16 anni scottata dalla vita. Quando Jen parla della sua vita dissoluta di New York (dove viveva prima di venire esiliata a Capeside) e poi accenna a quando ha perso la verginita’ a me quasi e’ andata di traverso l’acqua che stavo bevendo. La mia vita sentimentale non e’ propriamente stata una valle di lacrime ma un deserto dei tartari si’ pero’. Riconosco di non essere granche’ al corrente di quando e come le ragazze si affaccino di norma ad una vita sessualemente attiva, ma Jen mi e’ sembrata un esempio particolare in merito, non proprio da prendere come pietra di paragone. Anche le modalita’ dell’inizio della sua vita sessuale sono davvero discutibili, modalita’ per cui ora si parla di abuso, di stupro e di me too, ma ai tempi forse pareva brutto -o forse la volevano presentare come una cautionary tale, come se lei avesse responsabilita’… Lasciamo perdere. Jen (senza borsa, pure lei!) dalla camminata priva di grazia, i tagli di capelli che a una certa non collaborano piu’ e il viso, secondo me, bellissimo, nell’ultima stagione e’ quasi non pervenuta (come Grams, cacchio!) – ed e’ un peccato perche’ i personaggi presi singolarmente sono ok, ma non intrattengono tanto quanto quando sono insieme.
Nella serie ricorrono anche molti altri personaggi ma questi tre e Dawson sono quelli che ci sono in tutte ma proprio tutte le stagioni.
Ho capito che quando si guardavano le serie una puntata a settimana, gli autori potevano ancora permettersi qualche svista, qualche incoerenza nella definizione dei personaggi e nella consequenzialita’ degli eventi; gli spettatori tra una puntata e l’altra si scordano dei dettagli e non e’ la fine del mondo. Oggi che pero’ ci spariamo piu’ puntate al giorno e tutte le stagioni in una tirata unica, le magagne degli sceneggiatori vengono a galla. Capisco l’espediente per introdurre tematiche diverse (anche senza poi trattarle davvero), capisco gli attori che hanno altri lavori e quindi latitano o spariscono con spiegazioni che ti chiedi “ma picchi’?”, capisco anche che le storie d’amore solide sono noiose sullo schermo e il tira e molla permette di allungare la minestra, assicurarsi un lavoro e pagare il mutuo… Eppure, diamine, a volte mi chiedo cosa stia guardando! E io sono una che difende il trash! Da quando i ragazzi lasciano Capeside e tutti sono stati eterosessualmente con tutti (financo Jack si e’ limonato sia Joey che Jen), gli autori si trovano orfani di idee, sia mai si introducesse un personaggio nuovo piu’ interessante di quelli storici – che non ci vorrebbe poi molto. E quindi ci si ritrova con un Eddie – il tipico personaggio che mi provoca l’orticaria: l’incostante (che, insomma, come caratteristica abbondava pure prima che arrivasse), quello che frequenta l’universita’ pur non essendo iscritto, quello che spicca per essere piu’ bravo degli studenti stessi, lo scrittore che si incarta alla prima lettera di rifiuto di pubblicazione, il saccente che cerca di aprire gli occhi a Joey e di sfidare i suoi preconcetti salvo poi darsela a gambe quando il padre della stessa gli rivolge due domande sulle sue intenzioni con la figlia… Eddie, nun te smove ‘na cannonata, oh?! Come se non bastasse, ritorna pure e poi ancora un’altra volta. Aahh, l’orticaria! O ci si ritrova con una puntata, che e’ pura imbottituta, per raggiungere le 24 puntate della stagione. Una puntata, signori, in cui gli autori si aspettavano che il pubblico si intrattenesse con lo scambio (surreale) tra Joey e uno (spacciatore, ma, poi si scopre, padre di famiglia) che di notte la deruba e le punta una pistola, che poi si scopre essere scarica. All’inizio ho sopportato pensando che l’evento fosse una premessa alla puntata, macche’?! Quando ho raggiunto la saturazione per il delirio che stavo guardando e ho controllanto quanto mancasse alla fine della puntata, gia’ stavo a due terzi dei soliti 40 minuti… Allucinante. Non e’ solo la mancanza di fantasia degli autori a scazzarmi – e la presunzione che non ci accorgessimo che di tutti i personaggi storici della serie, solo una stesse lavorando in questa puntata. Quello che davvero mi fa reagire male a questa puntata -e per cui ancora ora mi inalbero – e’ lo scambio piccato che avviene tra Joey e il tipo, un lungo -eterno- scambio di battute tra il sarcastico, il brillante, lo sfotto’, la critica sociale… Joey si sciroppa il criminale, si vede svuotare il conto in banca, lo vede poi a terra per un incidente con una macchina, si riprende le sue cose, chiama l’ambulanza (ok, non e’ necessario finire il tipo sul posto, considerando i costi della sanita’ in America, anche chiamare un’ambulanza e’ una punizione adeguata), aspetta i soccorsi e una volta in pronto soccorso, conosciuta la compagna e la figlia di lui, si trattiene anche con loro in sala di attesa. Joey, ma veramente fai? Ma vai a casa! Fatti un bagno caldo, apriti una bottiglia di vino, fatti un piantarello per sfogare lo stress e guardati qualcosa in tv – quando e se te la senti, sporgi anche denuncia. Ecco, quello che voglio dire e’ che, ragazze, quando uno vi intrattiene per strada ed e’ molesto, non e’ necessario ne’ trattenersi con lui, ne’ sfidarlo, ne’ interessarsi ai suoi problemi. E’ piu’ che ok proteggersi e andarsene appena si e’ in sicurezza di poterlo fare, e’ ok anche non entrare in relazione con i problemi di qualcuno che non ha rispetto per voi, ok? Chiaro? ‘Ste tirate infinite per beatificare Joey, anche no. Che’ io ho la coda di paglia e sono malfidata e sento quasi che il tutto venga presentato come un esempio di condotta. E poi non ci sto perche’ sono la cafona che non da’ corda e risponde male quando non si rispetta il mio spazio personale. Un’altra cosa ricorrente, soprattutto nelle ultime stagioni, e’ la tendenza degli stronzi a ravvedersi e porre rimedio ai problemi che creano e alle parole di troppo che hanno detto. Ogni tanto va bene, ma sempre proprio sempre, stucca, poi diventa prevedibile, poi gli ostacoli e le cattiverie generano sempre meno tensione (vabbe’, tanto si risolve tutto!) e alla fine non vedi l’ora che uno stronzo rimanga tale -spero che Eddie non ci deluda in questo.
Piu’ penso a come dovrebbe finire una serie e piu’ mi rendo conto di non saper scegliere. Meglio che la qualita’ di una serie vada scemando cosi’ sara’ piu’ facile dirle addio o meglio che finisca col botto? Considerando la mia lealta’ quasi giapponese a cio’ che mi piace, forse rovinarmi la bocca per qualcosa prima di lasciarla andare, rende piu’ facile il distacco. In questo caso, Dawson’s Creek con i suoi personaggi contraddittori dell’ultima stagione mi sta aiutando moltissimo al riguardo. E’ stato bello, non lo nego, abbiamo avuto i nostri momenti, ma mo basta!
Come sempre, prima ancora di iniziare a scrivere del romanzo, anticipo che seguiranno una buona valanga e mezza di spoiler, quindi state accorti voi che leggete.
Ho letto The Handmaid’s Tale -anche se dico sempre handmaiden chissa’ perche’ -a Dicembre. Avevo provato a leggerlo qualche anno fa, ma ho fatto fatica a superare la terza pagina perche’ non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Dopo qualche anno di letture in inglese -perche’ anche la lettura in una seconda lingua richiede allenamento – ho riaffrontato il romanzo che, questa volta, mi ha presa subito. Grazie al cielo non ho pensato di riportarlo al charity dopo il primo tentativo di lettura. Durante la lettura mi sono ricordata che la Atwood aveva pubblicato almeno un sequel, che poi si e’ rivelato uno solo, The Testaments – non so perche’ le saghe me le immagino sempre in trilogie. Mi sono messa subito alla ricerca nei charity -dove senno’? – e, fortuna immane, l’ho trovato! Ho trovato l’edizione con la copertina rigida, non la mia preferita: e’ scomoda da portarsi dietro, da tenere in mano e occupa spazio -preziosissimo nel mio monolocale. Ma vabbe’, forse e’ ancora l’unica edizione disponibile e comunque, al charity, dopo essere stati fortunati, non si puo’ pure essere choosers.
Gilead e’ un posto molto cupo e opprimente, nel primo romanzo mi sento di dire che non succede molto, e il libro si dedica soprattutto a descrivere la struttura e le nuove usanze di questa nuova societa’ totalitaria -di emeriti pazzi da legare. Mi piacciono molto i romanzi sci-fi per questo, la descrizione di un mondo diverso e distopico mi risucchia completamente -un po’ come per i documentari sulle tribu’ o sulle comunita’ isolate, mi affascina sapere come gli umani si organizzano, come sviluppano una struttura sociale e come si relazionano tra di loro. E sono inoltre incuriosita dal processo creativo che l’autore compie per produrre un mondo tutto a se’. Entrambi i libri su Gilead sono un concentrato di patriarcato fanatico e leggere le vicende narrate e’ impegnativo. Le ingiustizie sono cosi’ pesanti che bisogna davvero fare uno sforzo per distaccarsi e vedere le forze in campo come elementi di una storia piu’ ampia; la distorsione ha infondo finalita’ di ammonimento e di protesta, ma ha anche lo scopo di elaborare una speculazione sulla natura umana.
Quello che mi e’ piaciuto e’ che l’agghiacciante stato totalitario di Gilead e’ distrutto per opera di tre donne: una giovane di Gilead che non conosce altra realta’ oltre a quella della sua nazione, un’altra giovanissima cresciuta fuori da Gilead e una piu’ matura che ha vissuto il passaggio dalla liberta’ all’istituzione di Gilead e che, cosi’ come partecipa alla costruzione di Gilead stesso, fara’ in modo di minarne le fondamenta e far saltare tutto in aria. Tutte e tre sanno leggere, che e’ consentito solo alle aunts. In fondo il divieto per le donne di leggere si rivela nato da una paura fondata: chi legge, ha potere -anche quello di distruggere nazioni intere. Il fatto che siano delle donne (quelle messe all’angolo, messe a tacere, usate e indottrinate alla sottomissione) a generare la fine di Gilead mi piace assai. Nel femminismo spinto della Atwood non c’e’ spazio per i principi azzurri, soprattutto in The Testaments. Credetemi, I’m all for the romance, ma in queste storie l’autrice ha deciso di concentrarsi su altro. Figure maschili ce ne sono poche, edificanti ancora meno, salvatori quasi nulla. Un’altra componente che mi piace sia nei romanzi che nei film e’ lo scoprire le sfaccettature dei villains, i cattivi, soprattutto quelli proprio perfidi -Hannibal Lecter e’ uno dei miei personaggi inventati preferiti, ecco, l’ho detto. I cattivi sono infinitamente piu’ interessanti dei buoni -e, anche se non sono un’attrice, credo che siano piu’ divertenti da interpretare, oltre a essere liberatori. A Gilead, Aunt Lydia e’ uno villain. Austera, gelida, (nel primo libro anche un’invasata), rigida e manipolatrice. Aunt Lydia e’ un personaggio interessantissimo, uno di quelli che gli attori ammazzarebbero la concorrenza pur di interpretarla. E’ il personaggio femminile con piu’ potere, quello che lavora con i commanders e indottrina handmaids, future wives e aunts -e in parallelo lavora con Mayday per far crollare Gilead. C’e’ anche che quando i personaggi cosi’ solidi, poi mostrano della debolezza, mi stona. Aunt Lydia viene presa di sorpresa da alcune vicende verso la fine del libro e questo… mmm, non mi torna. Personaggio sfaccettato si’, allo sbando no pero’. Per me lei e’ molto piu’ granitica, molto piu’ calcolatrice del dover farsi risolvere un problema imprevisto (Aunt Lydia, imprevisto?) da tre ragazzette di primo pelo. Ecco quello continua a stonarmi.
Sul famoso Goodreads il libro e’ praticamente massacrato. Pur avendo un giudizio medio in stelle non basso, le recensioni dei lettori lo distruggono. Infatti, prima ancora di leggerlo, gia’ mi sono visualizzata a restituirlo in negozio. Comunque io su Goodreads ci casco sempre, ma continuo a insistere. Come hanno detto alcuni lettori, il libro era stato attesissimo prima della pubblicazione e molti vi avevano riposto aspettattive enormi. Come succede in questi casi, il romanzo ha deluso molti. Per mia fortuna, ho letto The Handmaid’s Tale e The Testaments uno dopo l’altro, senza troppa attesa e con poche aspettative -non ho nemmeno ancora guardato la serie che ne e’ stata tratta. Credo di poter dire che questo e’ stato l’approccio con il risultato migliore -da applicare nelle letture, come nella vita. Alcuni lettori hanno messo in luce la prevedibilita’ di alcune scelte dell’autrice. Le critiche ci stanno, eppure questa prevedibilita’ -che non ho sempre anticipato – non mi ha disturbata. Altri hanno criticato le voci narranti delle protagoniste adolescenti. Devo confessare di avere un debole per l’irrequietezza e per l’intensita’ proprie dell’adolescenza (un giorno mi pentiro’ di quello che ho appena detto), ma ancora piu’ che per questo, le diverse voci narranti a me sono invece piaciute per i diversi punti di vista che apportano. Un lettore ha scritto che lasciare un finale in sospeso e’ spesso il modo migliore per finire una storia. Io non potrei essere meno d’accordo, anche se e’ solo una questione di gusti. Il finale aperto mi puzza sempre di presa in giro, di ‘vabbe’ lettore, senti: se io continuassi a raccontare manderei la storia in vacca e allora facciamo che lascio tutto in sospeso cosi’ ti puoi immaginare quello che vuoi e rimanere soddisfatto’. Ci vuole talento per ricorrere al finale sospeso, ce ne vuole (secondo me) ancora di piu’ per prendere una decisione e dare un finale definitivo. Mi spingero’ anche a dire che The Testaments mi e’ piaciuto piu’ di The Handmaid’s Tale proprio per questo motivo. Lasciarmi a bocca asciutta, a tavola e nella lettura, non funziona.
Da oggi la città in cui abito è in tier 3, very high alert level. C’è chi lo chiama lockdown, c’è chi lo chiama solo tier 3; il secondo mi sembra più corretto al momento, dato che le nuove restrizioni non hanno ancora chiuso tutto tutto come a marzo. C’è anche che le poche restrizioni che ci sono, sono bellamente sbeffeggiate, sfidate e ignorate -e infatti sto tier 3 ancora non mi è chiaro. Ho comunque colleghe del lavoro che su facebook pubblicano foto con tutta la famiglia riunita, in salotto, tutti a stringersi sul divano per rientrare nell’obiettivo – foto corredata da qualche frase tipo “la legge non ci vieterà di riunirci”. E sapete chi ci fa brutta figura in tutto questo? Loro che se ne sbattono delle indicazioni del governo o io che su facebook noto queste cose? Eh, appunto. Quando ho ripreso ad andare a lavoro, ci è stato indicato che “sì, è consigliato indossare il famoso face covering, ma se qualcuno non lo indossa o se si siedono in gruppo a un tavolo, be kind, non mettetevi a fare i poliziotti, ecco”. Il problema adesso sembra essere di non mettersi a fare i poliziotti. Nobile no? Poi non so come conciliare la mia ambizione di essere kind, healthy and employed. Massì, dài, incontriamoci a casa di tutti, facciamo feste, lamentiamoci delle mascherine, lamentiamoci del calcio che senza tifosi nello stadio non è più lo stesso. Poi appena arriva un contagio nel nostro raggio di conoscenze vedi come cala il silenzio. Quando aleggia la paura di perdere il posto di lavoro vedi come tutto si ridimensiona. La mia collega che si lamentava del suo lavoro semplice mentre è in Inghilterra per il suo PhD in storia dell’arte -una futura PhD che si mischia con gente umile, orore -beh, non si lamenta più –what I call, perspective. E niente, avevo voglia di lamentarmi un po’ anche io, in modo frammentario e privo di senso -qualità che caratterizzano i miei processi mentali al momento. Se si possono lamentare i complottisti -con la loro aria di superiorità, oh, sommi detentori del sapere, oh Marianne della libertà di andare smacherinati da Poundland -non vedo perché io no. La frustrazione sta crescendo, l’inverno sarà davvero cupo e la tolleranza per le cazzate altrui sta andando a farsi benedire. La verità è che “life is so unnerving for a servant who is not serving” (citazione da La bella e la bestia, prego): non sto facendo il mio lavoro -perché non ci sono clienti e quindi mi vengono date mansioni molto varie- e mi manca. Mi manca sapere cosa sto facendo e mi manca sentire che il mio lavoro ha un senso, mi mancano i clienti abituali (chi l’avrebbe mai detto), lo small talk (chi l’avrebbe mai detto) e la stanchezza per un giorno di lavoro ben fatto. Per consolarmi penso che, if worse comes to worst, potrei realizzare i miei sogni di una vita hippie -da eremita però, ché le comunità sono il male.
Secondo quanto sento dire da tutti la terapia è un ottimo modo per conoscersi. Detto così non c’è nulla di sbagliato, no? Un anno di terapia dovrebbe far parte del curriculum di tutti. Detto così sembra che uno, seduto davanti al terapeuta, scopra come per incanto delle bellissime verità su se stesso, verità che lo fanno vivere più in pace con se stesso e con il mondo. Forse per alcuni è così, ma, sorry to burst you bubble, per altri, e soprattutto per la sottoscritta, non lo è. Se qualcuno mi chiedesse cosa è la terapia, direi che è una serie di incontri in cui uno specialista mette in evidenza quanto i tuoi processi mentali siano inefficaci -che da un certo punto di vista, doh! sono qua davanti a te, a stare bene mi ci compravo un vestito con i soldi della seduta. Praticamente uno spende 30 anni ad arredare una casa, poi inizia a pioverci dentro e un architettto ti viene a dire che avresti potuto scegliere una casa diversa, ma ciò nonostante forse ne avresti scelta una in cui la pioggia si sarebbe infiltrata. Comunque infondo il danno potrebbe essere peggio, hai provato a mettere un secchio sotto alla perdita? E perché il tavolo e il divano sono messi così? Perché non hai mai provato a mettere il divano in camera da letto? Perché non ti serve? No, ma qual’è il motivo reale? Sorry, got carried away. La terapia serve a conoscere se stessi, dicono. L’idea di dover avere uno sconosciuto qualificato (vi prego, non qualificato no, parlate col vostro gatto piuttosto) per sentirsi dire “vedi questa cosa che ti disturba? è una tua responsabilità” non è una buona idea di marketing; dire che serve a conoscersi meglio vende di più. Per essere così critica, ho insistito pure troppo con la psicoterapia, e peggio ancora, critico e continuo ad andare dalla psicologa -si vede che ho davvero bisogno di uno bravo. Ogni volta che esco dallo studio -ormai solo in modo virtuale – sono arruffata come un gatto dopo un ciclo della lavatrice e, se non sono triste, sono arrabbiata col mondo. Dicono che provare tristezza o rabbia sia positivo. Come nel caso della medicina omeopatica, se dopo l’inizio di un trattamento c’è un peggioramento, è un buon segno. Dicono. Il reale motivo di ciò non ci è dato sapere, ovviamente. Quest’anno sono tornata in terapia -dopo confusi, confusissimi corsi e ricorsi storici – perché il lockdown è stato un delirio e perché sono anni che mi trascino un disturbo fisico che, secondo tutti (specialisti, blog, signora del mercato e google) è curabilissimo con qualche seduta di psicoterapia. Non scenderò nei dettagli perché non solo non sono interessanti, ma i consigli che si ricevono quando si condivide una qualsiasi diagnosi sono spesso peggio della diagnosi stessa. Shot of bleach anyone? L’ultima seduta di terapia mi ha lasciata con una rabbia dentro che Hulk avrebbe preso appunti. La cosa peggiore non è stata avere voglia di lanciare cose al muro e spaccare tutto a casa, la cosa peggiore è stata avere l’autocontrollo per non farlo. Dopo aver mentalmente lanciato tutte le ceramiche, bicchieri e libri al muro, mi sono chiesta, ok, perché questa rabbia? Perché questa reazione? Quale fatto della seduta mi fa sentire così? La risposta che mi sono data – che credo sia l’unica che possiamo avere – è: ho condiviso qualcosa che mi disturba e mi sono sentita rispondere che l’avvenimento è comunque piuttosto comune. Ok, quindi ti sto parlando ma quello che ti sto dicendo non è importante. Così tanto per offrire un esempio slegato dal mio caso: diciamo che qualcuno doveva soffiarsi il naso e ha chiesto se poteva usare la mia manica -la mia manica? Ma lasciami in pace, ti do un fazzoletto. Le domande per capire perché questa richiesta mi abbia dato fastidio sono state al livello di: beh, avere bisogno di soffiarsi il naso è comune, perché ti ha dato fastidio? Perché invece non ti sei sentita grata che questa persona in una situazione vulnerabile abbia chiesto aiuto a te? Perché non volevi dare la tua manica? Ci sono tante persone che darebbero la propria camicia ad un’amica raffreddata, perché tu no? Questo mentre un barlume di ragione di diceva “non si sfugge all’evidenza che qua una delle due è scema, ma chi?”. Poi, ok, sono in terapia e quindi devo riconoscere che queste domande, surreali, siano un espediente per arrivare al fondo della questione. Devo però anche confessare che a me questo scavare per arrivare al nucleo -partendo da situazioni slegate -, sembra una forzatura. Ti ho risposto mezz’ora fa sul perché mi ha dato fastidio, il fatto che insisti – tra l’altro suggerendo idee fuori da questo mondo, “in Papua Nuova Guinea soffiarsi il naso è considerato una delle più alte forme di fratellanza” – ci farà sicuramente arrivare da qualche parte, che quella parte sia del tutto valida -e non forzata – è un altro conto. E quando questo susseguirsi di domande incalzanti inizia ho sempre il sospetto che già si sappia perfettamente dove si voglia arrivare –talking about jumping to conclusions – e che si faccia in modo di farmici arrivare a me – tipo manzo incanalato e incalzato a muoversi – come altro espediente del mestiere. Alla terapeuta sembra che io non stia rispondendo, a me sembra che lei non stia ascoltando. Ovviamente si sta ponendo l’attenzione sulla “ragione più profonda del mio fastidio”, il fatto che io abbia rifiutato di cedere la mia manica perché non volevo è del tutto secondario, era secondario al momento in cui è successo l’avvenimento ed è secondario per la terapeuta; per me non è secondario, forse è questa la ragione del fastidio? Una madre sgrida il figlio scalmanato non perché è stanca e lui è scalmanato (anche perché se lo è, la madre si deve prendere le sue responsabilità). La madre lo sgrida perché in fondo non avrebbe mai voluto avere figli. Ok, ma ne siamo così sicuri? C’è, secondo me, questo problema di fondo nella psicologia, ovvero che si lavora su conclusioni del terapeuta che, essendo un essere umano (doh!) può anche prendere cantonate. Avete provato a dire a uno psicologo, guarda, no, questa cosa che mi dici non mi torna proprio? Vi siete sentiti chiedere perché? Perché te lo sto dicendo io che sono la diretta interessata. Una supposizione (sbagliata) di uno psicologo non ha più valore della mia verità, mi ci puoi mettere tutta la negazione e il narcisismo che ti pare. Perché uno psicologo se ne può uscire con una cazzata dopo avermi visto tre volte e io devo giustificare perché quella castroneria non mi torna? Prova a giustificarmi tu cosa ha contribuito a formulare quella boiata -e cerca anche di individuarmi i tuoi di pregiudizi. A volte mi sento intrappolata in una situazione tipo: “Soffro di vertigini e non riesco a salire su una scala”. E la reazione che ottengo è: “hai mai provato paracadutismo?”. Ok, stai cercando di evidenziare la rigidità delle mie posizioni (sacrosanto!), ma, per caso, stai anche ascoltando? “No? Non hai mai pensato di lanciarti col paracadute?”. Prima o poi si scoprirà che mandare a quel paese il proprio terapeuta è la cosa più terapeutica di tutte. Sul fronte conoscere meglio se stessi, ecco, sono pronta a riconoscere che a volte le domande le interpreto come una critica quando non dovrei. Sono pronta a riconoscere che la mia sensibilità è calibrata in modo diverso rispetto a molte persone con cui vengo in contatto – mi chiedo anche perché questa consapevolezza non sia utile a rendere la terapia più adatta a me, ma che io debba adattarmi ai toni della psicologa, just saying. Ok, prendiamolo come un esercizio.
Come potete notare l’ultima seduta non è andata bene -anche se i terapeuti uniti direbbero che è andata benissimo. Così bene che quasi mi passa la voglia di continuare, così bene che non ho dormito la notte, così bene che non mi va di raccontare granché perché tanto è successo perché l’ho fatto succedere, perché il fatto di per sé non è importante, ciò che è importante è la mia reazione (comunque eccessiva) e mi miei pensieri al riguardo (che vanno cambiati). So anche che quello che mi ha disturbato dell’ultima seduta dipende dall’entrata in scena di un’altra persona che serve alla terapeuta per chiarire delle dinamiche. Come farò a togliermi la sensazione che la mia verità dovrà essere passata attraverso il filtro di quest’altra persona per avere validità? Vedremo. Perché qui scatta la grande, enorme, gigantesca incognita di ogni dubbio riguardo alla terapia: sto autosabotando la mia psicoterapia? Again, vedremo. Questa sarà l’ultima terapeuta che vedrò per del tempo, tra meteore e non, in tutto ne ho visti 7. C’è chi dice che bisogna vederne molti prima di trovare quello giusto. Tra guru strambi, specialisti seri, altri meno seri e altri con problemi di continuità, io sono quasi arrivata alla triste conclusione che quelli che adorano il proprio terapeuta hanno qualcosa che non va – sì, una delle cose che mi devo raccontare per sopravvivere. Non so ancora come conciliare il fatto che io abbia sia qualcosa che non va che una terapeuta che non adoro. Mi ricordo che ho ripreso la terapia perché ho un problema, che non devo adorare la mia psicologa per ottenere dei risultati e mi sto dando del tempo per vedere se riesco a lavorare su me stessa -notato come non dico che sto cercando di risolvere il problema? Le aspettative alte non hanno mai funzionato con me. Probabilmente non riuscirò a ottenere il 100% del beneficio dalla terapia, ma se dovessi ottenere il 50% sarà comunque un risultato. Vedremo.