Lunedi’, se Dio vuole e non ci sono sorprese inaspettate (ci bastano le variazioni del menga, grazie), dovrei tornare a lavoro. Tra lockdown e restrizioni che nella mia contea inglese sono state piu’ rigide, nell’ultimo anno ho lavorato solo sei settimane. No shit! Quando lo dico ai miei amici, la risposta standard che ricevo e’ “e chi sta meglio di te?!”
Come reazione ci sta tutta perche’ finora Santa Pupa mi ha protetta dalla disoccupazione e mi ha permesso di stare al sicuro di casa – onestamente, tantissima roba. Eppure c’e’ sempre un’altra storia dietro alla facciata socialmente accettabile che presentiamo al mondo -e che ricordiamo anche a noi stessi per non predere del tutto la testa. Perche’ la verita’ e’ che una pandemia risveglia paure, insicurezze e traumi passati che manco un infelice commento sull’aumento di peso diretto a una donna… Secondo me, trasforma anche dei ricordi piuttosto banali in piccole tragedie. Per affrontare (battutona!), gestire (you may say I’m a dreamer) o anche sopravvivere (more likely) a questi prodotti luridi della propria mente, a volte si trovano degli stratagemmi, altre si soccombe senza gloria.
La protrazione di questo lockdown/mesi a casa fa sentire la stanchezza in diversi modi e, per esempio, ora sento intaccata la mia capacita’ di interpretare cosa mi dicono gli altri. Sento la mia capacita’ di comprensione compromessa perche’ ci sono giorni in cui qualsiasi cosa mi venga detta mi sembra rivestita di schegge di vetro, tutto quello che mi viene detto mi ferisce. Per coronare il tutto adesso sfoggio un’emotivita’ da ormone instabile -e non e’ manco quel periodo del mese.
Lavorare e’ uno dei miei trucchi per non impazzire, e’ una forma un po’ imperfetta di meditazione perche’ mi da’ un break dalla mia mente che avrebbe bisogno della revisione di uno bravo. Il lavoro alla fine lo trovo anche superiore alla semplice meditazione. Non solo vengo pagata (sempre un punto a favore), ma mi stanca fisicamente, da’ uno scopo e una struttura alla mia giornata e la possibilta’ di concentrarmi su qualcosa che sia diverso da quell’incomprensione di 12 anni fa per cui ora non c’e’ soluzione – o quell’altra cosa di otto anni fa, o quella di sei, o…. Ci siamo capiti. Inoltre devo interagire con le persone per un tempo limitato -se dovessi scegliere quando farlo, non succederebbe mai. Mai avrei pensato di avere bisogno di vedere persone, ma questa pandemia me lo ha schiaffato in faccia piu’ volte. Non vivo per il mio lavoro, ma gli sono davvero grata per l’equilibrio che porta nella mia vita – o la parvenza dello stesso. Perche’ in effetti l’equilibrio non e’ doversi distarre dalla propria mente disfunzionale, ma e’ la capacita’ di trovare un centro in situazioni che variano. Considerando che in passato sono riuscita ad avere squilibrio anche nel lavoro (settimane senza giorni liberi, continuo rimuginio anche nel tempo libero e giorni off passati a piangere sul divano perche’ non sapevo cosa fare se non dovevo lavorare –shame on me!), gia’ questa la trovo una situazione accettabile. Ci sono ampi spazi di miglioramento per il mio equilibrio interiore, ma ho fatto dei piccoli passi avanti rispetto a certe situazioni passate.
Detto questo, perche’ sento questa apprensione per il ritorno al posto di combattimento?
Da qualche tempo, nella terrazza (and I’m overselling it) davanti al mio appartamento, ogni giorno si fanno vive una coppia di gazze ladre e un uccellino bianco e nero che batte la coda ininterrotamente. La terrazza e’ un obbrobrio architettonico con un sistema di drenaggio cosi’ scarso da trasformarsi in una pozzangherona con le piogge. Pero’ le visite giornaliere di questi esserini mi portano allegria. Io Boh non ha avuto una deriva gattara – solo per via delle clausole del mio contratto d’affitto-, non ha avuto una deriva ossessiva per le piante -perche’ povere creature con me non ce la fanno a sopravvivvere-, ma non ho potuto evitare la deriva birdwatcher -cittadina poi.
Ho finalmente finito il maglione iniziato ere geologiche fa. Dopo averlo fatto e disfatto molteplici volte (causa uncinetto sbagliato, punti contati male, misure errate, e chi piu’ ha piu’ ne metta), dopo aver speso intere stagioni di serie tv e reality tv (si raschia il fondo qui) lavorando all’uncinetto, dopo aver avuto un meltdown memorabile (perche’ ormai quasi concluso ancora non mi soddisfaceva), dopo aver dovuto lavorare per minimizzare degli sbagli -che non potevo risolvere se non disfacendo, di nuovo, meta’ lavoro fatto (e non esiste proprio!) -, ho finalmente finito il mio cardigan di lana. E’ cosi’ pieno di errori che se dovessi ricevere anche un complimento falso, potrei scoppiare in una risata isterica -e passare poi al pianto. Per la precisione posso contare almeno sei errori commessi – che, conoscendomi, non smettero’ mai di notare.
Prima di questa pandemia credevo di essere una creativa, credevo di avere manualita’ e gusto, adesso non solo non ne sono piu’ cosi’ sicura, ma creare e’ diventato stressante.
Non so quanto sia stato salutare e giusto impuntarsi sul concludere questo progetto. Ho cercato di tenere duro perche’ l’acquisto della lana e’ stato un piccolo investimento, il modello dello schema che ho acquistato era davvero bello e pensavo di avere bisogno di creare. Ho tenuto duro per non lasciare un progetto inconcluso – oh, somma onta! – e da una parte finire il cardigan e’ stata una vittoria. Pero’ il mio critico interiore (un Bruno Pizzul al vetriolo), mi ha accompagnata (incalzata, more like) e sfinita per tutto il processo. Non so quanto sia ok dedicare cosi’ tanto tempo a qualcosa che non ci soddisfa – che poi non ci soddisfi perche’ non e’ fatto abbastanza bene o perche’ siamo impossibili da soddisfare, e’ un’altra storia (infinita e che si morde la coda).
Comunque ho un maglione nuovo, caldo e di qualita’ -almeno finche’ non decidero’ di darlo a un charity.